Gualtiero Marchesi

Gualtiero Marchesi

Ho conosciuto Gualtiero Marchesi nel 1977, quando lavoravo all’Hilton di Milano. Lui aveva aperto un ristorante in via Bonvesin de la Riva, portava tutta l’esperienza acquisita in Francia ma non era ancora conosciuto: ricordo che la prima volta in cui sono stato a cena nel suo locale, passava fra i tavoli con un camice bianco che lo faceva assomigliare a un professore di Niguarda.

Poi io sono andato a lavorare in Inghilterra e in Francia e sono tornato alla fine del’79: allora era diventato il “divino Marchesi”, il primo ad avere due stelle Michelin in due anni; uno chef che non cucinava mai ma faceva cucinare i suoi collaboratori, offrendo i suoi preziosissimi spunti creativi. Marchesi non aveva grande manualità, ma certamente aveva testa.

E aveva il dono di condizionare la critica, come è avvenuto con i suoi piatti di maggiore successo, dal Risotto giallo alla foglia d’oro al Raviolo aperto, fatto di fogli di lasagna con dentro una foglia di prezzemolo, quasi una filigrana.  Marchesi aveva imparato l’arte culinaria dai fratelli francesi Troisgros a Roanne e ha portato in Italia una nuova filosofia di cucina: pentole di rame, cibi di stagione, cotture brevi, presentazioni semplici e poche salse, che coprono i sapori: “Bisogna togliere e non mettere” era solito dire.

Alla fine degli anni Settanta ho cominciato a frequentare il suo ristorante come cliente, anche perché il maitre era stato un mio compagno di scuola, e siamo diventati amici: avevo accesso alla cucina e ci scambiavamo molte idee. Poi, quando Gualtiero ha aperto a Milano un altro ristorante, il Canoviano, mi ha chiesto di diventarne lo chef, ma avevo appena aperto Arianna a Cavaglietto… “Te lavori per prendere caldo!” mi diceva dopo avermi chiesto quali fossero i prezzi dei piatti che proponevo, ma la mia realtà di campagna è sempre stata molto diversa da quella di Milano.

Successivamente ha lasciato la metropoli per spostarsi a Erbusco, in Franciacorta, dove ha aperto il ristorante Relais L’Albereta: a casa mia, come dovunque, Marchesi continuava ad essere un mito. Ricordo che quando ho chiesto a mio figlio Alberto dove volesse festeggiare il suo decimo compleanno, mi ha risposto: “Da Gualtiero Marchesi!”. Allora abbiamo fatto una gita in Franciacorta al suo ristorante, dove abbiamo mangiato l’Astice con verze e salsa d’arance: un piatto che davvero non ho mai dimenticato.

Ma devo dire che una mia proposta ha avuto l’onore di essere paragonato alla sua: una sera è venuta a cena una famigliola con un bambino: anche lui ha voluto assaggiare il risotto con le rane, e la cosa mi ha un po’ stupito. Poi gli ho chiesto se gli fosse piaciuto e mi ha risposto affermativamente: “E’ buono come quello che fa mio nonno” – ha aggiunto – allora gli ho chiesto chi fosse suo nonno: “Gualtiero Marchesi” mi ha risposto.

L’esperienza e la creatività di Gualtiero hanno fatto nascere tanti chef, come Carlo Cracco, Davide Oldani, Enrico Crippa, Andrea Berton, Paolo Priore e Daniel Canzian, il più giovane: del resto, come ho già detto, lui non cucinava perché, come amava dire, “A me piace dirigere l’orchestra, non suonare”: questo permetteva ai suoi discepoli di imparare veramente.

Ma del “divino Marchesi”, oltre al fluido magico e alle famose ricette rimangono anche le tante salaci battute, come quando a chi gli ha chiesto tempo fa dove si dovesse andare per mangiare bene a Torino, ha risposto: “Ad Asti”, oppure quando di fronte ad una critica ai suoi fegatini, troppo al sangue, ha minacciato: “La prossima volta ve li faccio crudi”…

E voglio ricordare infine un ultimo suo gesto compiuto a favore di tutti i colleghi: la prossima apertura a Varese di una casa di riposo per chef. Ho il sospetto che la cucina lì sarà molto curata…